Vasile Ernu: un approccio non convenzionale alla questione Charlie Hebdo
La tragedia di Charlie Hebdo ci riporta al dilemma dell’affaire Dreyfus. Con chi solidarizzare?
Cosa ci insegna l’affaire Dreyfus
Un amico mi dice che è bene rammentarci dell’affaire Dreyfus. Non sarebbe male. La domanda fondamentale che si pone in questo momento è la seguente: dopo tutta questa follia criminale, è ancora possibile promuovere e praticare valori universali? La tragedia che porta il nome simbolico di Charlie Hebdo ci pone nuovamente innanzi al dilemma posto dall’affaire Dreyfus.
All’epoca, dopo il tentativo di condannare il soldato Alfred Dreyfus, ebreo di origine alsaziana, accusato di aver trasmesso documenti segreti alla Germania, l’interrogativo che emergeva era: “cosa vuol dire essere un cittadino francese?”. L’opinione pubblica si divise; le due barricate affrontarono la questione in maniera radicalmente diversa. Da una parte della barricata vi erano esponenti di spicco delle autorità, dell’esercito, dell’aristocrazia, rappresentanti della Chiesa Cattolica e del vecchio mondo “regale”. Costoro difendevano un ordine conservatore, dai valori particolari ben gerarchizzati e imposti. Questa era la Francia del particolare.
Dall’altra parte della barricata figuravano alcuni intellettuali, i figli della rivoluzione universale capeggiati da Émile Zola, che credevano nei valori universali, nei diritti universali dell’uomo e del cittadino. Non credevano nel particolare e nell’imposizione di questo particolarismo a tutti, bensì nel reperimento di valori, leggi e diritti universali che non necessariamente distruggessero il particolare, ma potessero diventare validi per tutti. Questa era la Francia dell’universale.
In linea di principio, la tragedia di Charlie Hebdo, ci ripropone, come dicevo prima, lo stesso dilemma, ma in scala molto più ampia, forse anche globale: per superare questa impasse, dobbiamo tornare all’ossessione delle particolarità che vogliamo imporre all’altro (identità particolare, nazione, religione, “civiltà” e così via), ovvero i valori che ci allontanano e ci fanno fare la guerra da migliaia di anni, o continuare a costruire l’alquanto fragile universalismo di cui disponiamo (diritti dell’uomo e del cittadino universali, diritti sociali ed economici universali)?
Solidarizzare anche con Ahmed?
C’è molta isteria in questo momento e viene da tutte le direzioni. No, questa tragedia non parla di musulmani, di immigrati, né dei limiti alla libertà. Il terrorismo non è rappresentativo del mondo musulmano, così come Breivik non lo è del mondo cristiano europeo attuale. Sia il primo che il secondo condannano simili gesti disumani, e qui vediamo chiaramente che la vita è il valore comune che condividiamo, e che non si tratta di nessuno scontro tra “civiltà”. Non cerchiamo di stilare una lista dei crimini commessi, perché noi “europei civilizzati”, in quanto a punteggio, potremmo ritrovarci ben davanti ai “barbari”.
Come si chiama il primo poliziotto morto? Forse Ahmed? E il redattore morto? Forse Mustafa? È molto probabile che due (delle dodici) vittime credessero nello stesso dio dei terroristi. Solo che in maniera diversa… Non è certo il caso di dar fuoco alle moschee. Quando affermiamo “Je suis Charlie”, dobbiamo essere consapevoli che in questa affermazione includiamo anche Ahmed e Mustafa, e che siamo solidali con loro… E non per via della religione, naturalmente, che qui non conta.
Non mi identifico con l’approccio giornalistico dei membri di Charlie Hebdo. Ma non credo che dobbiamo condannare la “mancanza di responsabilità” né il “carattere provocatorio” dei suoi giornalisti, condanna che si iscrive in un certo senso nella formula: “è colpa delle vittime”. Ciò non esclude una certa responsabilità. Ma non c’è nulla che possa giustificare un crimine del genere.
“Noi”, gli occidentali, dimentichiamo tuttavia molto spesso, o forse non vogliamo prestarvi attenzione, che la maggior parte delle vittime non si trova nel “nostro” spazio, ma proprio nel “loro” mondo. Va bene avere dei principi, essere solidali con quelli di Charlie Hebdo, pur se abbiamo visioni differenti, ma perché mai non siamo stati solidali, e perché si è scritto così poco un mese fa riguardo alla tragedia in Pakistan, dove nell’attentato rivendicato da Al Qaida sono state uccise 141 persone, tra cui 132 bambini? Anche “loro” hanno pianto i loro figli, anche “loro” hanno lo stesso nemico. Dunque la questione non riguarda quella che con orgoglio definiamo “civiltà”. Qui stiamo parlando di morte, di tragedia, di sofferenza, di qualcosa di universale.
Ma se dovessi avviare un dibattito serio sulla “libertà di espressione”, comincerei almeno con due domande. La prima è: il nostro discorso sulla “libertà di espressione” e il modo in cui ce ne serviamo non è forse ipocrita? Le critiche che muoviamo ad “alcuni” non hanno forse unità di misura diverse quando entra in predicato “il nostro mondo civilizzato”? Domandiamolo un po’ anche a “loro”. La seconda: la “libertà di espressione”, così come viene utilizzata e praticata dal mondo occidentale, non è forse piuttosto appannaggio di un determinato tipo di autorità? Questa libertà, per diventare veramente libera, non dovrebbe essere corroborata da altre libertà fondamentali, cominciando con quelle politiche e finendo con quelle economiche e sociali? Non è forse vero, infatti, che la “libertà di espressione” ha senso solo nella misura in cui intendiamo consolidare la democrazia a tutti i livelli, non limitandoci alla sfera dell’opinione e dell’espressione? Io penso che oggi non si possa più parlare di “libertà di espressione” senza parlare allo stesso tempo di tutte le libertà fondamentali attuate, imposte e limitate attraverso le politiche statali. La “libertà di espressione” acquisisce davvero forza quando è sorretta da libertà politiche, sociali ed economiche universalmente valide.
Spero tuttavia che l’occidente non abbracci la logica della rivincita, dato che ha una capacità enorme nel moltiplicare la violenza nei modi più raffinati, e nel bloccare la libertà in nome della “sicurezza”. Sono fenomeni che provengono anche dall’interno del nostro mondo, non solo dall’esterno. Non entriamo in una logica post 9/11, perché a pagare saranno i civili, gli indigenti che non hanno colpa, i poveri immigrati e gli indifesi. Forse “noi occidentali”, con le nostre politiche, non abbiamo alcun tipo di responsabilità per quanto sta accadendo? Non abbiamo alle spalle una storia coloniale e una sequela di interventi in quegli spazi, che hanno lasciato delle radici profonde? La colpa è solo dell’ “altro”? E soprattutto, non mettiamoci a fare pacchetti di leggi che ci spingono verso uno stato di polizia. Uno stato di polizia non è mai uno stato sicuro. Il potere, a prescindere dalla geografia e dalla storia, tende sempre a diventare un Leviatano. Non dimentichiamoci che la storia del terrorismo è lunga e che ha radici nel “nostro” mondo. E il terrorismo può essere antistatale, religioso, marginale e, soprattutto, può essere terrorismo di stato, rivolto verso l’interno o verso l’esterno. Non dimentichiamocelo!
Tradotto dal romeno da Anita Bernacchia con l’accordo dell’autore.
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