Gli ultimi eretici dell’Impero
Lankelot: Andrea Consonni, 16/12/2012
“Sogno Tecnologico Bolscevico
Atea Mistica Meccanica
Macchina Automatica – no anima
Macchina Automatica – no anima
Ecco la Terra in Permanente Rivoluzione
Ridotta imbelle sterile igienica
Una Unità Di Produzione
Unità di Produzione
Tecnica d’Acciaio
Scienza Armata Cemento
Tabula Rasa Elettrificata” (C.S.I. – Tabula Rasa Elettrificata)
Credo di non esagerare nell’affermare che chi è di sinistra, lo è stato o proviene da famiglie che si rifanno al variegato e dissonante mondo della sinistra, dalle più riformiste a quelle che ancora oggi flirtano col comunismo più ortodosso, sono stati protagonisti, partecipanti o semplici spettatori (magari anche paganti) di discussioni spesso interminabili che ruotavano attorno a tematiche del tipo: “E se avesse vinto Trotsky? Ipotizzare possibili scenari alternativi”, “Quello dell’URSS non è mai stato vero comunismo”, “Stalin è stato il salvatore del mondo interno”, “Senza la sinistra non godremmo di nessun diritto e spiegare di quali diritti si tratta”, “Confronto fra piano Marshall e piani quinquennali”, “Perché i gulag sono diversi dai campi di concentramento nazisti”, “Il tradimento della democrazia costituzionale”, “Prospettive rivoluzionarie dei movimenti extraparlamentari” e via dicendo, il tutto condito con citazioni (alcune volte coltissime e proprio per questo indecifrabili) di Carlo Marx, estrapolate dal Libretto Rosso, con sottofondo di canzoni di rivolta intonate in coro, lacrime per la Resistenza, in un’atmosfera aromatizzata con sigari cubani arrivati dalla Cecoslovacchia e polvere da sparo, con aperture verso il mondo calcistico del genere “Il Milan è di sinistra mentre l’Inter di destra”, senza dimenticare la strategia della tensione e il minuto di silenzio per i caduti di secoli e secoli di lotta e la fine/tradimento/risorgimento degli ideali.
La corrispondenza appassionata, puntigliosa, giocata su colpi di fioretto e di carezze che si scambiano i due socialisti/comunisti/eretici/sconfitti/rivoluzionari A.I., denominato “Il Grande Istigatore” che in gioventù cercò senza successo di uccidere Stalin e Vasilij Andreevič, tornato in Romania alla ricerca di un senso perduto della propria esistenza mandata in macero dalla Perestrojka, su cui si fonda “Gli ultimi eretici dell’Impero” dello scrittore e filosofo rumeno Vasile Ernu (Hacca Edizioni, traduzione di Anita Bernacchia) vive di questo genere di discussioni e delle atmosfere che le caratterizzano. Questo romanzo espistolare è decisamente più colto e raffinato ma come le discussioni sopracitate vive di una “sòla” di fondo: perché se questi dibattiti, queste lettere in una prima fase sembrano interessanti, appassionanti, malinconici, illuminanti e persino commoventi grattando sotto la superficie altisonante si finisce poi per affondare in una nebbia oppiacea/alcolica di luoghi comuni, idiozie, parole vuote. Naturale che sia più difficile accorgersene se a imbastire questo genere di discussioni non è un operaio metalmeccanico o un pensionato con la terza elementare ma un raffinato utilizzatore di parole come Ernu, decisamente scaltro nello scegliere le parole e gli argomenti giusti per confondere il lettore ma l’operazione è la medesima e assume contorni quasi orwelliani che provocano brividi gelidi sulla pelle.
L’operazione mistificatrice ha inizio sin dal termine “eretico” che sta nel titolo, utilizzato non a caso circondato com’è da un’atmosfera quasi magica, come se l’eresia incarnasse necessariamente qualcosa di positivo e in grado di apportare dei miglioramenti al mondo, dimenticandosi che gli eretici sono uomini come tutti gli altri, abilissimi a posteriori nello stroncare sul nascere eventuali focolai di dissenso interno o esterno (in campo religioso c’è davvero qualcosa di meglio dall’essere passati dal cattolicesimo al calvinismo?), per non parlare della frase posta sul retro (discutibilissima ma furbissima scelta editoriale) che chissà quali reazioni dovrebbe scatenare in un lettore: “Quando il comunismo crollò, il paese sprofondò sotto un’immensa quantità di vodka”. Cosa dovrei provare leggendo questa affermazione? Tristezza, malinconia, disgusto, sconforto? Cosa? Perché il primo pensiero che si è fatto breccia nella mia mente è stato per esempio: “Beati loro perché almeno saranno morti o morranno di qualcosa di più onesto, seppur di scarsissima qualità, ma che non inganna nessuno e procura piaceri decisamente migliori di un’unità produttiva…”
Leggendo si affonda passo dopo passo nelle paludi mobili dell’ovvietà, come se avessimo davvero bisogno di Ernu per scoprire che questo mondo di banche/capitalismo/consumismo/borse/voto inutile è una vera e propria schifezza o del rapporto, quasi di filiazione, che lega Cristianesimo e Comunismo e tutta una serie di affermazioni (la società del controllo, le telecamere…) che sembrano costruite apposta per quella categoria di lettori/cittadini che vogliono sempre sentirsi ripetere come un mantra che vivono in un mondo schifoso. Tolte questo genere di frasi fatte (che hanno tutt’altra forza in un romanzo come quelli scritti dall’odiatisissimo scrittore a stelle a strisce Chuck Palahniuk) i motivi di interesse per leggere questo libro sono praticamente assenti, a patto di non provare una perversa attrazione per le solite manfrine sul ripensare il comunismo in chiave moderna, sugli errori di questo o di quel periodo storico che davvero non se ne può più, il tutto annegato in discussioni filosofiche da cattedratico ammuffito che per darsi un certo tono ogni tanto si diverte a fare delle sparate che dovrebbero turbare (?) o sconvolgere (?) il lettore e che invece producono l’effetto contrario di trasformare ogni frase in potentissimi sonniferi.
Se c’è qualcosa in cui questo libro rasenta la perfezione sta proprio nel essere l’incarnazione della parabola autodistruttiva della Rivoluzione d’Ottobre e in più generale dell’applicazione pratica del comunismo: se le prime pagine sono da innamoramento iniziale perché ti sembra di avere a che fare con due sapienti che la sanno lunga e ti fanno abbattere le gabbie mentali zariste, ecco che subentra subito la fase di stasi post-presa di palazzo d’ottobre con la relativa disillusione e con il sogno che comincia a farsi pericoloso e forse è meglio scappare, abbandonare il libro: se lo fai sei salvo, altrimenti finisci o per morire in Siberia o per trascinarti stancamente fra fasi di apparente benessere (la “dolce vita sovietica” descritta a pagina 240) e carestie per poi arrivare al crollo finale, così banale e senza nemmeno un finale entuasiasmante, con la bandiera con falce e martello ammainata sulla piazza Rossa, che quasi non se lo ricorda nessuno quel giorno.
Il libro riserva degli spunti interessanti, è giusto ricordarlo, e sono quasi tutti quelli che hanno a che fare col mondo letterario, come le nuove prospettive di lettura/rilettura del romanzo di Bram Stoker “Dracula” e della tematica del vampirismo oppure le pagine dedicate a “I racconti della Kolyma” di Varlam Salamov (ne scrive anche Giampiero Mughini nel suo ultimo e bel libro “Addio, gran secolo dei nostri vent’anni”) e più in generale al ribaltamento dei cliché sul mondo concentrazionario dei gulag, anche se non condivido per niente l’idea che quell’orrore sia stato possibile a causa della mancanza di politica (il carcere è già in sé l’incarnazione di una determinata idea di società e l’internamento nel gulag era frutto proprio di una teoria politica che non avrebbe potuto portare ad altro che a quegli stermini e internamenti e ai quali continuerà a portare ogni volta che verrà applicato); altrettanto interessanti sono le discussioni attorno al fallito progetto del blocco sovietico di riunire popoli e storie differenti all’interno di un grande contenitore che è di per sé una suggestione piena di fascino (mi ha fatto sempre fatto pensare al futuro raccontato nella saga di “Guerre Stellari) e che permette un aggancio al periodo storico attuale con le tensioni che percorrono un’entità sovranazionale senz’anima e solide fondamenta come l’Unione Europea ma anche tutto ciò che riguarda la Romania (l’autore è straordinario, giusto ammetterlo, quando scrive di Ceausescu e del popolo rumeno) e la riscrittura della storia e queste sì pagine vibranti che offrono al lettore la possibilità di farsi della domande su come la Storia viene riscritta e narrata a seconda delle opportunità, sullo sviluppo delle dittature e sulla nascita di presunte democrazie, su come sia facile cambiare casacca o ripulirla, dipingedosi come vittime o come protagonisti di chissà quale lotta per la libertà.
Sono poche pagine che non riescono comunque a mutare il giudizio complessivamente negativo di quest’opera di Vasile Ernu che poi affonda definitivamente su affermazioni apparentemente sferzanti come nell’invito rivolto agli intellettuali: “Nel suo rapporto con l’autorità, un intellettuale deve scegliere tra due atteggiamenti: o fare l’intellettuale di corte, o l’intellettuale dell’esilio. Io ho scelto l’esilio, un esilio rispetto a qualsiasi forma di potere politico. Essere in esilio è già di per sé una forma di critica” (p. 127) ma che in realtà, riletto una seconda volta, svela tutta la sua scontatezza o parzialità, perché l’essere in esilio non è necessariamente una garanzia di libertà di pensiero ma magari solo una scelta, una paura, un’altra forma di schiavitù mentale e non è solo l’intellettuale che dovrebbe essere chiamato ad essere libero (ma che significa essere liberi?), come se l’intellettuale fosse di per sé qualcosa di qualitativamente migliore, ma qualsiasi essere vivente e in tutti gli ambienti sociali, compresi quelli familiari.
Piuttosto che non essere di regime io preferirei che gli intellettuali tornassero a scrivere qualcosa di interessante e sferzante perché un intellettuale è libero prima di tutto se non scrive stupidaggini e banalità e non abusa poi di parole come “intellettuali”, “libertà”, “cultura” ed “eresia” e scrivendo questo libro così “ereticamente utile” Vasile Ernu si è schierato proprio al servizio di quel Regime Unico di Pensiero tanto criticato dai suoi due protagonisti e allora sarebbe forse auspicabile che in tempi come questi l’esilio si sposasse al silenzio, un silenzio carico di riflessione e meditazione capace di rifiutare parole, dogmi e teorie politiche, un silenzio che rimanga silenzio.
Vasile Ernu, “Gli ultimi eretici dell’Impero“, Hacca Edizioni, Matelica, 2012. Titolo originale “Ultimii eretici ai Imperiului”, 2010. Traduzione di Anita Bernacchia.
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